Recensione DIARIO DI SCUOLA – D. Pennac

Quattordicesimo giorno del Calendario dell’Avvento

Recensione a cura di Eugenia Tafi (corso Il mestiere del Narratore 20\21)

 

DIARIO DI SCUOLA

Daniel Pennac, scrittore acuto, geniale e brillante ci parla in Diario di scuola, un saggio sull’educazione scolastica, di come la sua carriera sia partita dall’ultima fila dei banchi per arrivare proprio là, alla cattedra. È un viaggio di risalita: parte da un piccolo bambino che non era bravo a scuola e arriva a infondere a tutti la speranza e la convinzione che non esistono somari, ma che ognuno ha i propri tempi e che tutti prima o poi nella vita ce la fanno.  

Oggi lo possiamo trovare alla lettera P del vocabolario: Pennac, di nome Daniel. Ma la storia di Pennac, figura difficile da descrivere in poche righe, parte da molto lontano. Proprio da dove non ce lo aspetteremmo mai. Ultimogenito di quattro fratelli, Daniel era un caso a parte. Il corredo genetico della famiglia era perfetto, da tre generazioni tutti dei grandi studiosi. Contro tutte le leggi del darwinismo sociale lui era un somaro. Così esordiva il padre nel ’68 quando Pennac finalmente si laureava in lettere: “ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere una guerra mondiale per il dottorato?”. Così da grande Daniel decise di scrivere un libro sulla sofferenza degli alunni, sulla sofferenza dei genitori e degli insegnanti. Sulla sofferenza di non capire e sui suoi danni collaterali.

Si sentiva un rifiuto in quella che lui chiama la discarica di Gibuti, la scuola. Ma lì, in quella discarica, fra tutti i professori che ha avuto, quattro lo salvarono.

Il primo salvatore: un professore di francese che invece di assegnargli i canonici compiti gli assegnò la scrittura di un romanzo, vista la fantasia delle scuse che si inventava. Dieci pagine alla settimana, ma senza errori ortografici. Anche la lettura ebbe un ruolo decisivo, leggeva per imitare la posa del lettore copiandola dal padre e dai fratelli. Verso la fine del suo percorso di studi incontrò altri tre professori che lo salvarono. A questo proposito, l’immagine che lo scrittore ci regala è quella di un braccio che ripesca l’affogato e lo tira su nonostante il suo annaspare suicida. Questi professori erano pregni di passione comunicativa, erano artisti nella trasmissione della materia. I professori dovrebbero avere la capacità di immaginarsi di non sapere quello che sanno, il senso dell’ignoranza e l’unico metodo di insegnamento dovrebbe essere l’amore. Infatti questo fu un’irruzione nell’ignoranza di Daniel, fece la differenza. Qualcuno aveva per la prima volta fiducia in lui e a sua volta lui in se stesso. Così si laureò, e inizio a scrivere il suo primo romanzo. L’amore fu la sua rivoluzione.

Nel 1959 Daniel Pennac, studente poco promettente, scriveva dal collegio una disperata lettera alla madre. Nel 1969 il padre scriveva a Daniel e nella lettera, accanto al suo nome, compariva una parolina: “professore”. Quella parolina fu difficile da metabolizzare per Pennac, ma era un dato di fatto, in dieci anni era diventato. Ma nonostante questo si portò dietro le ferite del somaro, che non si rimarginarono mai del tutto.

Divenuto insegnante, per far passare il sapere, decise che il suo compito sarebbe stato quello di alleviare la paura dei suoi peggiori allievi, affinché potessero imparare a conoscere. Lo scrittore ci spiega che la paura più grande di un somaro è la solitudine, la paura di non fare mai quello che è giusto, il senso di vergogna provato quando in un mondo in cui tutti capiscono, lui non riesce a farlo. Questo non riesce a vedersi proiettati in un futuro diverso dal suo presente. Il non capire niente a scuola lo fa dubitare che forse sarà così anche nella vita. Pennac lo chiama il divieto di avvenire, divieto che causa in chi lo subisce la passione del fallimento. Parte fondamentale su cui si basa la carriera dell’ultimo della classe sono le bugie, necessarie per giustificare la sua inadempienza: non ha svolto i compiti. O non aveva voglia e ha fatto altro, oppure ha provato con tutte le sue forze, ma non ci è riuscito. Questo però vorrebbe dire ammettere una mancanza, l’ennesima volta. Allora si inventa le bugie buone, chiamate da Pennac le verità corrette. Non fece mai discorsi sul fatto che gli alunni avrebbero dovuto impegnarsi a scuola. Aveva deciso di parlare agli studenti il solo linguaggio della materia che insegnava loro. Sviscerare quei “ci” e quei “ne” che rappresentavano tutto il loro rapporto con la scuola: “non ci arriverò mai. Non me ne frega niente”. In modo da non farsi inghiottire da questi. Credeva ancora nel rituale dell’appello di prima mattina, nel dettato come un’immersione profonda nella lingua e infine credeva ancora nell’imparare testi a memoria. Così dava a i suoi allievi, e anche a lui, un testo a settimana da imparare e da saper recitare in qualsiasi momento dell’anno.

Le ultime due pagine di questo libro terminano con una metafora esplicativa. Ogni anno a settembre le rondini migrano. Alcune entrano nelle case che hanno le finestre aperte, alcune riescono ad uscirvi altre sbattono sul vetro e cadono tramortite. Il compito del professore, del buon professore, è quello di rianimare le piccole rondini e permettere loro di tornare dalle altre e compiere il loro viaggio.

È questo l’amore in materia di insegnamento…salvare dal coma scolastico una sfilza di rondini sfracellate.”
 
Siamo giunti al termine di un viaggio che ho amato fare. Fa riflettere a 360 gradi su quanto pesa la scuola su un bambino e su come un buon insegnante può salvarci la vita. Tutti noi, spero, abbiamo avuto questo genere di insegnanti. Io li ho avuti, li ricordo con particolare nostalgia e affetto. Ringrazio anche loro se sono qui a scrivere queste righe. Cosa mi ha lasciato questo libro? Speranza. La convinzione che tutti, io compresa, in un modo o nell’altro diventeremo e di avere fiducia nella piccola parte di somaro che c’è anche in me, in tutti noi. Forse proprio quella piccola parte, tanto odiata, è quella che ci permetterà di diventare quello che desideriamo.

 

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