Pubblichiamo qui la chiacchierata fatta con Alessandra Sarchi, durante l’incontro del Book Club del 29 marzo 2022.

a cura di Martina Masi e Chiara Luci
Alessandra Sarchi è nata in provincia di Reggio Emilia nel 1971. Ha studiato storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa e alla Ca’ Foscari di Venezia.
Nel 2008 ha esordito con la raccolta di racconti Sogni sottili e clandestini, a cui hanno fatto seguito i romanzi L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020) pubblicati da Einaudi. Nel 2019 ha pubblicato per Bompiani la raccolta di saggi La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati.
Nel febbraio di quest’anno per minimum fax è uscita Via da qui, la sua ultima raccolta di racconti, che ha presentato al Book Club Fenysia lo scorso 29 marzo.
Il racconto nell’editoria italiana gode di minor considerazione rispetto al mercato estero. Riviste prestigiose d’Oltreoceano ospitano regolarmente racconti nelle proprie pagine di cultura. Qual è il motivo di questa disparità di trattamento secondo te?
È una bella domanda. L’Italia vanta una notevole tradizione secolare, ma il momento più significativo è da ricondursi a quando nel Trecento, in Toscana, Boccaccio scrive il Decameron aprendo così la strada al racconto. Certo, si trattava di storie coese tra loro, novelle racchiuse all’interno di una cornice tematica, ma è proprio così che dovrebbero essere le migliori raccolte. E questa tradizione prosegue. Le Operette morali di Leopardi sono a tutti gli effetti dei racconti che non hanno niente da invidiare alla produzione ottocentesca europea di questo genere letterario. Oggi c’è un problema di tipo commerciale. Il privilegio che si dà al romanzo deriva dall’aspettativa che si ha nei confronti di questa forma. Banalmente: il romanzo vende di più. I racconti sono visti come una produzione di seconda mano.
I grandi editori, generalmente, pubblicano poche raccolte di racconti e lo fanno per quegli autori che hanno già un ampio pubblico. Non è dunque una questione di domanda e offerta, piuttosto di condizioni che sono state create: se dai meno spazio al racconto, allora il racconto diventerà una forma secondaria e minoritaria. Ma non lo è. La densità e la precisione che la forma del racconto richiedono agli autori sono elevate… Forse più del romanzo. Se in un romanzo non azzecchi venti pagine su duecento, ci può stare; se nel racconto sbagli venti pagine lo devi buttare. Per questo i grandi autori di racconti hanno generalmente un’esemplare maestria nel realizzare questa forma rimanendo carenti nel grande romanzo, quello lungo, e viceversa.
Tu ti sei cimentata con entrambi i generi.
Fosse per me scriverei solo racconti, ma non me lo fanno fare! Per come ragiono io, nel racconto c’è più spazio per l’immaginazione, o meglio, il racconto ti fa vedere le cose, non te le fa pensare. È un po’ come per la poesia. Il passaggio dalla scrittura all’immaginazione è più rapido nel racconto rispetto al romanzo. Il romanzo richiede un pensiero più lento, analitico, riflessivo.
In un periodo in cui la rapidità e la brevità sono le forme di comunicazione dominanti e vincenti, la forma del racconto dovrebbe essere preferita, ciononostante il romanzo continua a essere privilegiato, pur richiedendo uno sforzo maggiore per essere assimilato.
Va detto che il romanzo richiede uno sforzo di attenzione minore, o almeno, altalenante. Nel racconto si gioca nello spazio breve, perciò come lettore non puoi perderti nemmeno una virgola; se ti sfugge la concentrazione per tre pagine, e alla quarta il racconto finisce, l’hai perso tutto. Questo nel romanzo non avviene. C’è il tempo di recuperare. Ho notato che chi legge i grandi romanzi fluviali, che siano tomi autoriali o di genere, ha un’attenzione fluttuante. Con i miei studenti della Bottega di finzioni, capitava che nel momento in cui scattava una discussione su un romanzo lungo, c’era qualcuno che si era perso interi capitoli; o almeno li aveva letti ma non li ricordava. Questo perché appunto la scrittura in un romanzo lungo ogni tanto, come dire… Va! Non è sempre altamente sofisticata e curata, ma alterna pagine molto belle, essenziali, a pagine meno belle, meno essenziali. Tenere in piedi trecento pagine non è lo stesso che tenerne trenta.
Nel definire il racconto hai parlato di immaginazione, di lettura che porta a vedere le cose. Le tue descrizioni sono molto fotografiche: si percepisce la presenza di una figura che osserva ogni scena come un’opera. Quanto c’è della tua formazione da storica dell’arte in questo senso?
C’è tanto. La scrittura è un atto conoscitivo della critica d’arte, un mezzo per avvicinarsi alle opere, non è una cosa posticcia o cosmetica, di contorno, ma un sistema per capirle. Per me è lo stesso con la scrittura in generale. Uno strumento che davanti alle cose cerchi di capire come siano fatte, come funzionino. La Storia dell’arte ti fornisce un metodo per il quale tra te e ciò che descrivi esistono mille filtri e ciò che stai facendo è sempre una forma di rappresentazione. Questo per me è molto importante perché si intreccia con un tema che permea la narrativa italiana contemporanea: l’autofiction. Io personalmente non la amo perché mi sembra intrisa di una ingenuità di fondo. Ogni volta che tu dici “io” sulla pagina, non sei tu, ma un altrove letterario: così come la mela dipinta non è quella che c’è sul tavolo. Questa è una lezione fondamentale che mi viene dalla Storia dell’arte. Non so se poi se sia giusto o sbagliato, ma per me funziona.
Condivido. Riprendendo questo discorso mi viene in mente cosa dicesse Gadda: «L’io, io!… Il più lurido di tutti i pronomi!». Sembra quasi che quando non si hanno più argomenti di cui parlare, si parli di se stessi pur di tirar fuori qualcosa. Nei tuoi racconti invece c’è una prospettiva che dona profondità, cosa che manca in un numero cospicuo di romanzi, anche lunghi, che purtroppo partono da una prospettiva personale, sviluppata attorno all’io e non alla specificità di una persona al di là di se stessa come individuo.
Sì, capita che nella narrativa contemporanea si parta da questi personaggi privi di specificità propria, psicologica, e a volte anche professionale. Sono tutti avvocati, medici, o svolgono queste professioni a cui la fiction italiana ci ha abituato. È raro trovare un romanzo in cui la protagonista sia, ad esempio, una donna ingegnere. Quest’anno ne ho letto uno, Nina sull’argine di Veronica Galletta… E sono stata molto felice di averlo trovato. Anche in questo libro si parte da esperienze personali dell’autrice, ma non è un’autobiografia. La sua esperienza ci fa entrare nel mondo di un personaggio altro rispetto a noi. Tutti noi siamo abitati e parlati da altro, e dire “io” sulla pagina non significa necessariamente fare autofiction. Molto dipende da quanto si vuol parlare di sé, quanta autenticazione e attestazione di se stessi e del proprio dire si voglia dare: e questo è un escamotage per sentirsi liberi di dire quello che si vuole. La terza persona implica invece una coerenza interna al personaggio che deve essere manutenuta e che, staccandosi dall’Io, e diventa difficile da gestire.
In questi racconti c’è un incontrarsi del dolore e dell’amore. Quanto è importante per te questo connubio?
Sono esperienze che uno incontra nella vita, è molto difficile separarle, io non conosco storie, o vite, che siano piene d’amore dall’inizio alla fine o infelici dall’inizio alla fine. Ciò che di bello ha scoperto la narrazione moderna è il prendere sul serio la vita quotidiana, fatta non solo di bianchi e neri, ma anche di grigi. Anche la letteratura d’evasione, per quanto costruisca dei mondi duali, parte sempre da un gancio psicologico col mondo che il lettore vive, cioè un’alternativa credibile alla quotidianità.
Raccontare l’amore è una cosa difficile. Noi siamo figli di una retorica che ha codificato un linguaggio, soprattutto nella poesia. Siamo pieni di schemi che poi non sempre rispecchiano la realtà. Io immagino che la futura letteratura d’amore, quella che scriveranno i ragazzini che ora hanno dodici o tredici anni, sarà diversissima da come la scriviamo noi oggi; banalmente perché le categorie che noi davamo per monolitiche, oggi non lo sono più. Ad esempio, il primo racconto di questa raccolta è una storia d’amore tra due ragazze, ma non l’ho pianificato, credo sia nato quasi spontaneamente. E ci pensavo: esistono in Italia romanzi che raccontano una storia d’amore tra due donne? Eppure non è un fenomeno nuovo, o minoritario, però è difficile trovare un romanzo che racconti l’amore tra due donne come può raccontarlo tra una coppia eterosessuale. Ci vuole del tempo. La letteratura guarda avanti, è vero, ma spesso ha anche un sacco di arretrati da recuperare.
Volevo allora chiederti: quanto è importante comprendere i sentimenti, propri e di chi ci circonda, e riuscire a metterli per iscritto, senza farsi sopraffare dall’Io?
Secondo me uno scrittore o una scrittrice, come dote principale, dovrebbero avere l’empatia. E se non hanno l’empatia, allora dovrebbero avere una grande curiosità nei confronti della realtà che li circonda. Chi scrive è una persona curiosa, che ha interesse verso quello che succede nel mondo. È il punto di partenza ascoltare le storia che l’umanità ti propone. Il mondo è pieno di storie. La gente narra storie in continuazione. Noi passiamo le giornate a raccontare delle storie. Lavorarle in un racconto comunicabile agli altri, è un’altra operazione.
Esiste un canone a cui rifarsi per capire, o distinguere, tra ciò che è letteratura, e ciò che invece è semplice libertà espressiva?
La scrittura può avere tantissimi usi: terapeutico, di comunicazione, d’evasione; e in ogni caso ci si può trovare davanti a una bella scrittura. Il discrimine è la capacità di trasfigurazione, cioè quando ciò che mi stai raccontando non è solo una cosa tua, ma qualcosa in cui io, lettore, vedo una stratificazione ulteriore in cui mi percepisco. Cioè trovo un sistema semantico e simbolico che, attraverso la lingua, la scrittura, arriva a essere di più. È qui che si sviluppa la dimensione artistica della scrittura, rispetto all’essere pura comunicazione o espressione.
Chi sono i tuoi maestri in letteratura?
Per il racconto, la mia lettura guida è Alice Munro, pubblicata da Einaudi in Italia e premio Nobel per la letteratura nel 2013. Lei ha scritto solo racconti. Mi piace per due ragioni: ha una tecnica sublime, piena di tagli, di elisioni, lacune, che lasciano enorme libertà d’immaginazione al lettore; e poi perché racconta la medianità della vita, “the middle station of life”. Lei è l’opposto di quello che fa uno scrittore come Carrère che cerca lo straordinario, l’ego spropositato; ed è interessantissimo, per carità, raccontare di un personaggio come Limonov. Però questa eccezionalità a me interessa fino a un certo punto. Mi interessa molto di più la vita quotidiana, perché molto spesso le persone, nel rapportarsi con gli altri tutti i giorni, hanno difficoltà a comunicare la propria vita, e trovarla scritta, riflettercisi, riconoscersi, è una forma di legame che avvicina al testo.
Per il romanzo, io amo moltissimo Elsa Morante. Non saprei dire nello specifico perché. Uno crede di aderire a un modello, ma in realtà è ciò che tu nascondi e rimuovi che è più presente, soprattutto nella dimensione artistica. Ciò che uno allontana o rimuove è ciò che poi tende a ripresentarsi di più. Perciò non so se Elsa Morante sia la parte più visibile della mia letteratura, però lei per me è una scrittrice di riferimento.
C’è spazio oggi per il rimosso, per l’inconscio, e quegli elementi del “tornare a galla” che lo caratterizzano?
Secondo me c’è poco spazio. Laura Pugno, scherzando, mi diceva che oggi esiste “l’infra-conscio”: ovvero dei brandelli di inconscio che ogni tanto emergono. Io ho studiato a Pisa con Francesco Orlando che sosteneva che tutta la cultura è un ritorno del rimosso. Io credo che abbia ragione. Quanto più una cosa è tematicamente forte e quanto più tu la allontani, la censuri, e tanto più questa troverà una strada per ritornare, anche camuffata. Nella letteratura questo è molto vero.
