Fenysia | BLOG
i n v i a t e c i
i vostri racconti e le vostre poesie
Tornare
Quando aprì la porta l’oscurità colpì i suoi occhi e un forte odore di dopobarba penetrò nel suo naso.
L’ambiente era unico, privo di finestre, buio.
Appena accesa la luce, resa fredda dai faretti a Led, quello che si mostrò alla sua vista fu un divano grigio, troppo grande per l’ambiente che lo ospitava. Le pareti erano spoglie. Sembrava più una camera d’albergo che una casa abitata. -Lasceresti tuo marito per me?-
Avevano ripreso a vedersi da poco. Una pausa durata quindici anni. Un intervallo di tempo lunghissimo durante il quale avevano fatto quello che era giusto fare. Sandro era rientrato a casa. Lucia glielo aveva permesso, i bambini erano molto piccoli, non meritavano loro, ma neanche lei lo meritava, di stare senza padre. Livia si era trasferita in Toscana.
– No, è lui la famiglia che voglio-
Il loro ultimo giorno insieme lo avevano voluto trascorrere al mare. Ai piedi di un castello, nel loro ristorante preferito, lo stesso che vantava di essere stato il luogo in cui un noto giocatore romano aveva chiesto in sposa la sua velina bionda, Livia aveva comunicato a Sandro la sua decisione.
– E’ giusto così. Non posso non andarmene, non posso stare lontana da lui, le
mie figlie devono crescere con il loro padre. E’ la mia famiglia, l’ho desiderata,
l’ho creata, non voglio distruggerla.-
A Sandro quelle parole erano arrivate attutite, forse dal rumore del mare, forse dalla nebbia che sempre gli velava gli occhi quando si concedeva qualche bicchiere di bianco a pranzo. Non aveva detto nulla. Le aveva preso la mano, l’aveva attirata a sé. In quel luogo sapeva di poterlo fare, Livia glielo aveva sempre concesso.
– E Io? Cosa devo fare io?-
– Torna anche tu a casa, Sandro. Sei sofferente da mesi, ti mancano i bambini, sei
assediato dai sensi di colpa. Lucia metterà da parte la sua rabbia, lo farà per se
stessa, per la famiglia.-
Mentre aveva pronunciato quelle parole a Livia venne in mente una sua amica psicanalista che un giorno, non ricordava quando e perché, le aveva detto che ogni psicologo sa bene quanto il luogo in cui si originano la maggior parte dei problemi delle persone sia proprio la famiglia.
Se ne andarono che era ancora presto. Il loro ultimo incontro.
Sandro capì dall’espressione di Livia che non era stata una buona idea accendere la luce appena entrati in casa. La spense e si diresse verso una lampada vicino al divano, ne pigiò l’interruttore ed una luce soffusa e calda invase l’ambiente.
– Da quanto vivi qui?-
– Da un anno. Come vedi c’è ancora molto da fare. Ma è mia.-
Livia si guardò intorno. Faceva molto caldo. Sandro si avvicinò, aveva in mano un bicchiere di acqua fredda. Glielo porse e si sedette sul divano. La prese poi per un braccio e la tirò a sè. La baciò.
– Sei sicuro di quello che stai facendo?-
– Ho aspettato questo momento per anni. Ho sognato più volte che tu fossi qui. E
sei qui.-
Livia ebbe un sussulto. Il bacio era stato appassionato, la sua bocca, le sue mani, il suo corpo avevano riconosciuto il corpo di Sandro subito. Lasciarsi andare era
Tornare
stato facile. Dopo pochi istanti però la sua ipertrofica tendenza al ragionamento riaffiorò e lei si staccò.
– Devi raccontarmi. Perché sei qui? Cosa è successo?-
– Ho fatto tutto quello che dovevo fare, come mi avevi chiesto tu. Ho fatto il
padre, ho fatto il marito, mi sono messo da parte. Poi un giorno ho deciso di togliermi la maschera, ho sentito che era giunto il momento di diventare ciò che sono. E me ne sono andato. Sono qui, con te –
Livia aveva ascoltato con attenzione ma il suo pensiero e i suoi occhi accarezzavano quel volto segnato dal trascorrere degli, dalle speranze, dai dolori , quel volto che lei tanto aveva amato e tanto aveva cercato di dimenticare negli anni della lontananza.
Fecero l’amore più volte quella notte.
– Devo andare via. Ho il treno alle 12.-
– Ti accompagno. Oggi non lavoro. Voglio stare con te-
Sandro era andato a farsi la doccia e Livia si era alzata dal letto e aveva iniziato a guardarsi intorno. La casa era piccola, arredata con rigorosa semplicità. Nel salotto, accanto al grande divano grigio dove la sera prima i loro corpi baciandosi per la prima volta dopo tanto tempo si erano riconosciuti e avevano vibrato insieme, vide una libreria e su uno scaffale una cornice con una foto che ritraeva Sandro abbracciato ai suoi figli ancora piccoli. Livia pensò che quando quella foto era stata scattata da Lucia, nella mente e negli occhi di Sandro lei c’era già. Quei bambini erano ora degli adulti così come lo erano le sue figlie. L’unico oggetto che rimandava al calore della vita, al passare dei giorni in quella casa era quella cornice. Per il resto la casa era spoglia, impersonale. Livia pensò ad un grande, immenso foglio bianco. Quasi ne percepì l’odore. Ripensò a quando da bambina sua madre la obbligava a trascorrere i pomeriggi piovosi chiusa in casa e le metteva davanti un foglio e delle matite colorate. Livia sapeva di non essere brava a disegnare e che sua madre le chiedeva di farlo solo per intrattenerla in qualche modo, per distoglierla dal voler uscire, dal volo andare a giocare fuori. Inizialmente svogliata, finiva sempre per prendere in mano le matite e pian piano il bianco veniva ricoperto, occupato da colori sgargianti. Il disegno veniva poi affisso sulla porta del frigorifero e la sera, di ritorno, suo padre notandolo le accarezzava la testa e le diceva che aveva usato dei colori bellissimi.
Livia sentì la mano di suo padre accarezzarle la testa, si voltò. Sandro era dietro di lei, le stava toccando i capelli. Fuori pioveva.
Cristiana Ciarli
Dimenticata
Era ancora lì, la riconobbi subito, anche se la posizione non era esattamente quella.
L’odore amaro della resina non se n’era ancora andato, la camminata lungo il viale che dalla pineta portava fino alla spiaggia mi aveva riempito le narici fino a farmi starnutire due volte.
Il sole consumato allungava le ombre, più mi spingevo oltre più i miei occhi catturavano l’immagine ingrandendola, come dopo aver calibrato il fuoco e riposizionato l’obiettivo di una macchina fotografica.
Se ne stava piegata su un lato, con una corda sfilacciata e ammonticchiata a prua come un serpente addormentato e un filamento di alghe che tracciava i contorni dello specchio di poppa.
Forse la marea era riuscita ad arrivare fino a quel punto della spiaggia, come quel giorno di fine agosto del ’93, quando il nonno mi aveva raccontato che Domenico non era potuto uscire in barca.
Era rimasto lì tutta la mattina, forse nel punto in cui me ne stavo io, con la camicia verde aperta e i jeans stinti arrotolati sotto le ginocchia, ad osservare l’acqua che schiaffeggiava la sua barca.
“Nanà, mi devi credere, l’ho trovato lì verso l’una, rosso rosso come se avesse bevuto un fiasco intero di vino”, mi disse il nonno mentre mi sbucciava una pesca in terrazza.
“Ma perché era arrabbiato?”, chiesi prendendo una delle fette.
Il nonno si appoggiò allo schienale della sedia e si allentò il colletto della camicia guardando oltre gli eucalipti della villetta di fronte.
Mentre mi avvicinavo di più alla barca, mossi la lingua come se percepissi ancora filamenti di quel frutto tra i denti. Il cellulare nella borsa emise un bip.
Quel giorno il nonno mi aveva raccontato che quaranta anni prima Domenico aveva perso sua figlia. Aveva otto anni, la stessa età che avevo io quando mi raccontò per la prima volta quella storia. Ricordo che non capii bene, all’inizio. Io una volta avevo perso il portachiavi con il cuore di gomma che avevo trovato nell’uovo di Pasqua, si era sganciato dallo zaino, forse. Non lo avevo più ritrovato. “Sì, gioia mia, così. Anche lui non l’ha più ritrovata”, mi disse.
“E poi?”, gli chiesi stringendo il bordo della canottiera come tenevo stretto il moscone di sinistra della barca.
Era la prima volta che vedevo il nonno in difficoltà nel raccontare una storia, lui che riusciva ad incantare gli studenti, che mi portava sempre un libro da leggere perché diceva che con le storie la vita era più facile da capire.
La storia di Domenico, invece, sembrava non capirla neanche lui, mentre parlava e fissava il bicchiere tenendolo tra due mani come se quell’orlo fosse la misura della quantità di parole che poteva pronunciare.
1
Mi sedetti accanto alla barca senza staccare la mano dal moscone, osservando i graffi che il mare aperto aveva lasciato sul legno. Cominciai a disegnare strane forme con le dita come se volessi scrivere anch’io qualcosa in quella storia, farne parte, aggiungere tempi e persone, togliere il dolore. Erano scesi al mare solo loro due, quel giorno, Rosa era rimasta a casa a preparare la pasta al forno. Stavano facendo i castelli di sabbia a riva, quando Eva gli disse che voleva fare il bagno. Aveva bisogno dei braccioli, non riusciva a nuotare senza, aveva ancora paura di galleggiare, di sentire il vuoto sotto i piedi.
Erano sotto l’ombrellone, accanto alle ciabatte.
“Rimani qui che papà te li prende”, le aveva detto.
Una ventina di metri, poco più. Poi un saluto al vicino che non faceva mai il bagno perché l’acqua era fredda. Sua moglie se ne stava a cuocersi al sole con il cruciverba sulle ginocchia e, mentre Domenico afferrava i braccioli, gli aveva chiesto una parola di undici lettere che significava “assenza del pensiero dalla realtà”.
Mentre sentiva le urla dei bambini che giocavano e le chiacchiere di una ragazza che si lamentava del caldo, aveva alzato uno dei braccioli in segno di vittoria.
“Distrazione”, le aveva detto, e la signora gli aveva sorriso puntando compiaciuta la penna verso di lui.
Si era avviato verso la riva, mentre nell’acqua i bambini sembravano essersi moltiplicati, aveva spostato gli occhi a destra e a sinistra, poi verso i tre castelli che avevano costruito, uno era già stato mangiato dall’acqua. Aveva aggrottato la fronte affrettando il passo nello scorgere un costume rosso, ma non era lei. Si era asciugato la fronte con un bracciolo sentendo la plastica graffiare.
Si era voltato di nuovo a destra, a sinistra, indietro, poi ancora davanti a sé.
Anche il mare sembrava essersi fermato. Lì, in quel ritaglio di riva, aveva bucato il tempo come la punta di un compasso, fermo e in attesa di girare.
Tutto era al suo posto, tranne Eva.
“L’ha chiamata, niente. L’ha richiamata, niente. Ha chiesto ai bimbi che erano lì, niente”.
“Dov’è andata?”, mi ritrovai a chiedergli.
Il nonno mi prese la mano e me la tenne stretta sul tavolo di plastica. Una mosca prese a camminarci sopra, ma non la scacciò.
“L’ha persa, Nanà”, mi rispose.
Ogni persona sulla spiaggia aveva cominciato a cercarla. I genitori avevano urlato ai figli di uscire dall’acqua, alcuni li tenevano stretti come pesci nella rete dei pescatori; altri se n’erano andati lasciando le formine sulla riva, impauriti neanche sapevano di cosa.
2
L’unico rumore, oltre alle onde che continuavano a sbattere, era quello del nome di Eva che veniva gridato in ogni punto di quel pezzo di spiaggia, per ore e ore.
Avevano continuato anche nella pineta, per tutto il pomeriggio, tutta la notte. Anche il giorno dopo e quello dopo ancora.
“C’ero anch’io. Avevamo distribuito foto in tutta Mondello, anche a Palermo”.
“E poi?”, continuai io.
Ma il nonno alzò le spalle.
Non era esistito un poi. Poi era finita l’estate, poi erano tornati tutti ai loro inverni quotidiani, poi il tg aveva relegato la notizia sempre più in fondo fino a non parlarne più, poi qualcuno aveva chiamato dicendo di averla vista ma la polizia non ci credeva, non c’erano prove; poi Rosa aveva smesso di preparare la pasta al forno, perché quel giorno era diventata fredda, la mozzarella si era fatta gomma che non poteva cancellare quell’attesa, quella disperazione. Poi aveva smesso di cucinare, di alzarsi dal letto. Persino di mangiare.
Domenico, poi, aveva cominciato ad uscire in barca, ogni giorno, quando era ancora buio. Diceva che non dormiva più, la notte.
“Ogni tanto gli chiedo quanti pesci hai preso? ma lui alza le spalle tirando la barca sulla spiaggia. Dice che gli basta uscire e poi ritornare, tutti i giorni. Giornate come oggi sono come l’inferno. È come se perdesse di nuovo Eva, io credo. È rimasto attaccato a quel giorno, Nanà, attaccato come il nodo che fa alla corda quando lascia la barca”, mi disse stringendo le dita delle mani le une con le altre facendo resistenza. “Lo fa volutamente male, così nessuno lo può sciogliere tranne lui, mi devi credere”, continuò con gli occhi accesi.
Presi il cellulare dalla borsa e lessi il messaggio: Il signor Loi vorrebbe concludere, la aspettiamo per la firma. L’agenzia immobiliare è aperta anche sabato.
Ne arrivò un altro: Le ricordo che è indietro di due rate per il pagamento. Mi richiami al più presto. Mi tremò la mano e la scostai dalla barca ormai inondata di buio.
Era lì che Eva era sgusciata via come una saponetta dalle mani bagnate. Era lì che la vita di Domenico si era fermata.
Ero stata al suo funerale, ieri. Se n’era andato anche lui, tre anni più tardi del nonno; avevo letto il suo nome sui manifesti a Palermo, mentre ero ferma al semaforo, e il giorno dopo ero lì, nella chiesa di Santa Lucia, di fronte a un prete vestito di viola che parlava tra sé e sé nel vuoto di quella chiesa come se avesse qualcosa da dire al suo Dio. Mi ero sfilata dal banco senza aspettare la benedizione ed ero corsa in clinica a trovare mia madre.
Le avevo urlato addosso perché mi aveva scambiato per un’inserviente che non aveva messo l’ammorbidente per lavare le lenzuola e l’infermiera mi aveva dovuto spingere fuori dalla stanza.
3
“La malattia è in stato avanzato, Elena”, mi aveva detto. “I ricordi non sono più parte di lei”.
Quello che avevo sentito non era un dolore esteso, una botta che arriva e poi smette di fare male. Era come un ago, invece, che lentamente sollevava ed entrava nella pelle, insistente finché spingeva ogni volta che gli occhi di mia madre non mi riconoscevano.
Eva non era mai stata dimenticata. Mi chiesi che effetto potesse fare, a me, che lottavo contro la memoria di mia madre chiusa nel suo cervello accartocciato dalla malattia.
Io che ero una figlia dimenticata.
Avevo pianto chiusa in macchina con il motore acceso, fissando la finestra della sua stanza al terzo piano, e poi nella nostra casa, dove ogni cosa era sempre rimasta lì: il tavolo in salotto dove pranzavamo la domenica e che ora era carico di giornali accatastati e di quaderni a spirale, le librerie con i romanzi del nonno, i centrini giallognoli sulle mensole e la sua ventiquattrore blu notte, sulla poltrona, con ancora i documenti della sua ultima udienza di tre anni prima.
L’avevo afferrata e gettata sul pavimento, ma non si era aperta. Era rimasta chiusa, come la sua memoria che non lasciava a nessuno la possibilità di entrare.
Con le mani tremanti e il fiato corto, avevo desiderato che Domenico le trapiantasse la sua, come fosse un organo compatibile. Sarei stata di nuovo figlia, di nuovo amata, mai dimenticata.
Presi le chiavi di casa dalla tasca dei jeans e le posai in equilibrio sul moscone. L’anello arrugginito abbracciava quei pezzi sui quali mi ostinavo a far reggere quello che mi era rimasto dei ricordi. Toccai di nuovo la barca spingendola come a dondolarla, ma rimaneva immobile. Premetti con ancora più forza e le chiavi caddero sulla corda dentro quell’odore di legno secco che mi riportò indietro alle parole del nonno mentre mi sbucciava la pesca vezzeggiando il mio nome dall’ultima sillaba, come solo lui faceva.
Nessuno lo scioglieva, mi devi credere.
Intrecciai le mani osservando il nodo mentre seguivo con lo sguardo il collo della corda, l’otto e di nuovo il collo fino alla galloccia. Neanche un pollice poteva entrarci.
La sera prendeva forma ed era come se davanti avessi gli occhi del nonno, neri come il mare quando fa più paura. Ma non sapevo se a spaventarmi di più era il bisogno di soldi per poter andare avanti o la necessità di lasciare andare la nostra casa, con tutto quello che mi era rimasto di lui e di mia madre prima che la sua memoria diventasse un palloncino sgonfio.
Sciolsi le dita e iniziai a muoverle nell’aria come a suonare una musica che solo io ascoltavo, una musica che era mancata al funerale di Domenico. L’organo era coperto da un sudario bianco, il prete non cantava, parlava sottovoce i versi dei canti senza neanche guardare nessuna delle sole cinque persone presenti, me compresa.
4
Le avevo contate, prima di fissare lo sguardo verso la bara scura e spoglia sul trespolo, stringendo tra le mani le chiavi; potevo unire le nostre teste come i puntini in un gioco di enigmistica.
Avrei creato solo una forma vuota, come la vita di Domenico che trasudava da quella chiesa spoglia, silenziosa, come il tempo che aveva vissuto dopo la scomparsa di Eva.
Mi alzai di scatto, afferrai la borsa e cominciai a camminare indietro allungando le distanze tra me e la barca.
Poi mi fermai, presi il cellulare e cliccai sul tasto rispondi.
Iniziai a correre scrollandomi la sabbia dai jeans e arrivai alla pineta con il fiato corto. Avvertii uno spasmo.
Il frinire delle cicale coccolava il silenzio mentre mi sentivo sprofondare in quella forma vuota. Confermo l’appuntamento di domani per la vendita della casa. Cliccai.
Perché il mio stipendio di giornalista non basta, volevo aggiungere. Ho bisogno di pagare la retta della clinica, perché non posso dimenticare mia madre, anche se mi scambia per l’inserviente che non mette l’ammorbidente per le lenzuola.
Anche se lei mi ha dimenticata.
– Carmen Garofalo
L’intrusa
Quando mio marito mi propose di chiamare Amanda a riparare il lavandino nella stanza degli attrezzi, mi irritai e gli dissi che con tanti idraulici maschi non c’era bisogno di chiamare Amanda.
- Dovrà pure guadagnare qualcosa e sa fare un po’ di tutto – mi rispose.
Da quando Amanda era arrivata in paese con due figli maschi al seguito, uno di dieci, l’altro di dodici anni, sembrava che le preoccupazioni degli uomini fossero quelle di fare favori ad Amanda.
Amanda era arrivata dalla Romania per fare la badante dalla mamma del prete che abitava in tre stanze proprio dietro il convento di Santa Caterina. I figli erano stati sistemati nel convitto che lo stesso convento aveva in città per accogliere i ragazzi delle valli e permettergli di andare a scuola. Nemmeno dopo quattro mesi, la donna era morta e Amanda era rimasta senza lavoro. Il prete le aveva permesso di rimanere nella casa finché non avesse trovato un’altra sistemazione. Questo di lei sapevamo in paese.
Amanda portava sempre i tacchi. Alta e massiccia, camminava sulle pietre sconnesse dell’unica strada che dal convento passava in mezzo alle case, come se facesse un favore alle scarpe portandole a spasso. E sulle calze spesse di lana sventolava sempre qualche gonnellina sotto una pelliccetta di agnellone di cui non poteva fare a meno.
La chiamai dalla finestra e le feci cenno di avvicinarsi alla mia porta.
- Ci sarebbe il tubo di un lavandino che perde, mio marito dice che tu lo sai riparare.
- Sì, gli attrezzi li avete?
- C’è una cassetta con tanta roba, penso di sì.
- Vengo domani mattina perché oggi ho da fare, vado giù in città – mi disse tirando fuori dalla tasca il telefonino e controllando qualcosa.
Mi chiesi cosa avesse da fare Amanda in un giorno così freddo e grigio e come facesse a scendere giù, visto che il primo autobus ci sarebbe stato a mezzogiorno. Tornai in cucina, presi il sacco della spazzatura e mi avviai verso il cassonetto che si trovava all’incrocio, vicino alla fermata dell’autobus. Amanda era sparita. Pensai che fosse salita su qualche macchina. Con quei tacchi e la strada ancora umida di nebbia, il cammino non sarebbe stato facile.
Tornai verso casa ma poi decisi di arrivare fino all’orto di mio marito per raccogliere un po’ di cavolo nero e presi la stradina sterrata che andava verso i campi. Per uscire avevo messo gli stivali di gomma sopra i calzini di lana ma ora sentivo il ghiaccio che dal fango della strada mi saliva direttamente agli zigomi e mi faceva lacrimare. Il furgoncino che di solito rimaneva parcheggiato davanti al capanno dove mio marito segava la legna, non c’era.
Amanda suonò il campanello la mattina dopo, verso le undici. Le chiesi di salire a prendere un caffè. Aveva messo un paio di jeans molto stretti e un rossetto color mattone. Portava ancora i tacchi. Prese il caffè senza sedersi, lo buttò giù in un sorso e fece un gesto con la mano come per dire “andiamo”. Sentivo il ticchettio sulle scale mentre scendevamo per andare di sotto e mi domandavo perché le avessi chiesto di venire su. Avrei potuto farla aspettare davanti al garage.
Si tolse subito la pelliccia e si chinò per controllare i tubi del lavandino. I pantaloni erano così bassi e la maglietta rosa così corta che si poteva vedere l’attaccatura del sedere.
- Ce l’hai una pinza? – mi chiese.
- Vado e vedere -. Mio marito stava entrando con la tuta sporca di segatura.
- Dagliela tu la pinza che ho dimenticato di spegnere un fornello – gli dissi uscendo dal garage. Lei mi gridò di chiudere il contatore dell’acqua.
Quando tornai era sdraiata per terra con la testa infilata sotto il lavandino e con la pinza spingeva su qualcosa che sembrava facesse resistenza. La maglietta le era salita fin sopra la pancia scoprendo la pelle bianca. Mio marito, accucciato vicino a lei, teneva in mano una chiave inglese.
- Allora? Lo ha smontato il tubo? – chiesi a lui.
- Ancora no, è difficile agganciare il raccordo.
- Scommetto che ora bisogna chiamare un idraulico, prova tu almeno! – dissi inviperita – avrai sicuramente più forza di una donna!
Amanda si stava alzando aggiustandosi la maglietta e sistemandosi i capelli. Aveva in mano un pezzetto rotondo di ottone. Mi ordinò:
- Scrivi, prendi una penna e scrivi: “doppia vite ridotta maschio-maschio, tre ottavi, mezzo pollice”. Devi andare a comprarla al negozio di ferramenta. Senza questa non posso fare niente.
- Se tu avessi chiamato l’idraulico, questa vite maschio – maschio, lui ce l’avrebbe avuta di sicuro – dissi a mio marito ignorando Amanda.
- Lei sa di sicuro che l’idraulico avrebbe avuto la vite! – urlò mio marito come rivolto a un pubblico che non c’era.
- Di sicuro, sì, e non saremmo stati qui in due a fare assistenza!
Amanda prese la pelliccia che aveva appoggiato su una damigiana, se la infilò e disse: – Io me ne vado -. Mio marito avviandosi verso la porta e sbarrandole il passo mi gridò di andare alla ferramenta a comprare quel cazzo di vite, e aggiunse:
- Nessun idraulico, nessuno, avrebbe saputo così bene il nome di un pezzo di ferro!
- Ma ce lo avrebbe avuto o sarebbe andato lui a procurarselo! – risposi con la voglia di prenderlo a schiaffi. Ma l’unica volta che ci avevo provato ne avevo presi così tanti di schiaffi che non ci sarebbe stata una seconda volta.
- E allora se mi date i soldi ci vado io – disse Amanda stretta nella pelliccia.
- Ci vado io, ci vado io, scrivi tu che cosa devo prendere – dissi a lei mettendole davanti un pezzetto di un vecchio calendario e una matita.
- Due, ne devi prendere due – disse Amanda, perché i rubinetti sono due -.
Uscii e mi incamminai verso il negozio di ferramenta. Lì dentro, in mezzo a scaffali e cassetti c’era da perderci le ore, con gli uomini in pensione che avevano sempre da comprare qualcosa per fare i lavoretti intorno a casa. Quando entrai ebbi la sensazione che la conversazione in corso fra il vecchio commesso e il benzinaio si bloccasse e sfumasse verso un commento sul tempo grigio. Mi sembrò anche che fra i due aleggiassero dei risolini d’intesa. Misi il foglietto sopra il bancone, il commesso lesse e andò subito a cercare in un armadio sul fondo.
- Suo marito sta bene? – mi chiese il benzinaio – non si vede più al bar, la sera.
Risposi di sì, che stava bene. Stava così bene che tutte le sere era fuori. Ma questo non lo dissi. Poi risposi al commesso che mi chiedeva se i pezzi li volevo di ottone o di metallo.
- Faccia lei – dissi – faccia lei -. Non mi ricordavo più che cosa aveva detto Amanda.
- Dopo, se non vanno bene, deve tornare.
- Andranno bene – risposi.
Uscii con il sacchetto di carta, così stretto in una mano che quasi mi sembrava di poterlo stritolare. Eravamo sulla bocca di tutti. Io, ero sulla bocca di tutti. Ridevano di me e di quanto ero stupida.
Quando entrai nel garage Amanda era seduta su uno sgabello e stava fumando. Mio marito non c’era.
- Li hai trovati?
- Sì, di ottone.
- Allora proviamo a cambiarli -.
Si sfilò di nuovo la pelliccia, si inginocchiò e cominciò ad avvitare una delle due viti su un tubo flessibile. La chiave inglese era rimasta sul lavandino e io la presi e me la rigirai fra le mani. Lei avvitava e svitava, alternava le mani alla pinza e parlava in rumeno come se si desse delle istruzioni da sola. Ero in piedi dietro di lei, avevo la sua testa all’altezza delle mie ginocchia, mi sembrava che la chiave occupasse sempre più posto nella mia mano, vedevo la scriminatura rosata dei suoi capelli biondastri e mi sentii riempita dalla voglia di colpirla. Rimasi ferma, mi arrivava il suo respiro pesante, la mia mano stringeva la chiave, lei stringeva la vite. Poi, con la faccia arrossata e il rossetto ormai sbiadito, si voltò e disse:
- Non mi serve quella chiave, mettila via. Mio padre è un idraulico, so bene come funzionano le cose. Quasi tutte le cose -.
Sarà stato per quell’arroganza che mi arrivò diretta al cuore e alla mano ma sentii la chiave che prendeva il volo e si lanciava sulla testa di lei e la colpiva senza smettere. Lei gridava, agitava le mani, voleva afferrarmi ma scivolò a terra e la chiave cadde sul pavimento vicino al suo collo ormai pieno di sangue. Mi buttai su una sedia. Sentivo ancora addosso gli occhi di lei sbarrati e nelle orecchie mi frullava l’urlo che aveva lanciato non appena l’avevo colpita. La luce al neon illuminava quel corpo che mi era parso tanto provocante. Ora sembrava un fagotto con le gambe zeppe e le mani rigonfie. Nell’aria c’era l’odore ferroso del sangue. Avrei dovuto alzarmi e fare qualcosa ma non sapevo che cosa. Mi chiedevo dove fosse mio marito e cosa avrebbe fatto lui a me quando avrebbe visto lei a terra piena di sangue. Poi mi alzai, spensi la luce, mi feci forza ed uscii, chiusi a chiave la porta del garage e tirai giù la saracinesca. Lei sarebbe rimasta lì, al buio e io sarei andata a camminare all’infinito finché non sarebbero venuti ad arrestarmi.
La nebbia si era appena dissolta, andavo spedita come se avessi da sbrigare una faccenda urgente, il ritmo veloce dei miei passi viaggiava insieme al pensiero martellante che lui, adesso, la sera sarebbe andato al bar o sarebbe rimasto a casa ma non avrebbe più visto lei.
E mentre passavo davanti alla casa di mia cugina Marina, una casa isolata, un chilometro fuori del paese, vidi il furgoncino di mio marito parcheggiato sull’aia e loro due che stavano parlando con le teste vicine e le mani di lei che toccavano il viso di lui. E mi videro, perché non potevano non vedermi, e lui venne verso di me, minaccioso, e lei dietro che cercava di fermarlo.
- Ora lo sai. Ora lo sai – ripeteva – e non c’era bisogno che tu venissi fin qui, sto con lei, con lei! – e mi stringeva i polsi e mi faceva male. Lei piagnucolava e diceva qualcosa ma io non capivo, non sentivo.
Amanda era morta e questo contava.
– Daniela Tani
STORIA DI DUE NOMI E UN COGNOME
Al caldo non erano più abituati in quelle valli strette, con poco sole. Il vento freddo le attraversava con la stessa furia di fascisti e nazisti. Gli Alleati si erano fermati alla Linea Gotica, che tagliava in due l’Italia sopra Firenze, sul crinale degli Appennini, e le truppe tedesche avevano attaccato con rinnovata ferocia i partigiani e le popolazioni civili, con scorribande, rappresaglie, devastazioni. Il nove maggio del 1944 avevano fucilato due medici e sette feriti, in un piccolo ospedale a Forno, nella Valle Strona, in Piemonte.
Laura aveva pianto per una notte intera, lei stessa sorpresa di tante lacrime, quelle che non aveva versato per suo marito caduto in Russia con gli alpini. Invece ora scorrevano, per la tristezza di una guerra crudele. Non era un pianto liberatorio, ma di sfinimento, di distacco dalla vita, di delusione per una giovinezza perduta fra violenze ed atrocità. Quella giovinezza che Laura avrebbe voluto sentirsi addosso, ma che non arrivava, mai.
Faceva caldo, quel giorno, un caldo insolito di prima mattina. Il suo turno di guardia, di notte, era finito da poco: le aveva dato il cambio un altro partigiano, un suo compagno di scuola. L’aveva guardata con un’espressione di desiderio, ma così vago e incerto da non destare i sensi né di lui né di lei. Maledizione a questa guerriglia estenuante – si lamentava Laura con se stessa – neanche ci accorgiamo più d’essere uomini e donne!
Si era incamminata lungo il piccolo fiume, quello che dava il nome alla valle, e non riusciva a pensare, per mancanza di sogni e fantasie, che sarebbero dovuti essere naturali alla sua età. Mancando però la mente, le venne in aiuto il corpo. Senza pensarci, si era tolta i vestiti ed era scesa nel fiume, accucciandosi come faceva da piccola, quando la nonna la lasciava entrare nell’acqua ma solo dove toccava il fondo.
Finalmente cominciava a rilassarsi, e il pensiero dalla nonna le correva alla scuola, si mise a fare l’appello a voce alta come fosse la maestra: dalla sua bocca uscivano i nomi dei compagni di prima elementare – Borocco, Panetti, Piana, Zamponi – i primi che le venivano in mente, ma poi si fermò a domandarsi perché facesse questo. Cercava forse di riprendersi l’infanzia, periodo relativamente felice, visto che la giovinezza era negata?
All’improvviso si mise a tremare, aveva i brividi per il freddo e per la paura. Si sentiva uno sguardo addosso, si vergognava della sua nudità alla quale faceva appena velo l’acqua del fiume. Il tedesco in uniforme era molto giovane, e molto spaventato. Bello e rude, di quella stirpe di montagna che fa più maschio e forte ogni bambino che nasce in salita.
Come il nostro lago d’Orta – pensava Laura – che, unico caso in Europa, ha un emissario che va verso nord invece di scendere a sud. Per Omegna passa il fiume Nigoglia, che s’immette nello Strona, il quale s’immette nel Toce, il quale a sua volta finisce nel lago Maggiore. Non avevano nomi di paesi, lì in Valle Strona, ma piuttosto quelli di fiumi, laghi, valli, montagne.
Joannes stava in piedi come una statua ai caduti, nel centro di una piazza: lo sguardo perso davanti a quella ragazza nuda nell’acqua. Però la puntava con il fucile, e terrorizzava lei e se stesso, non sapendo assolutamente cosa fare. Due giovani alle soglie dell’estate, lungo un fiume, in una valle brulla, affascinante, con la sua natura selvaggia. Era tutto aspro lì intorno, il paesaggio, la terra da coltivare, gli alpeggi dove portare le bestie a pascolare. Joannes e Laura, muti, sembravano assorti negli stessi pensieri, come se fossero entrambi nativi della valle, e non lei italiana e lui tedesco, con una guerra in corso. Ma una cosa era chiara a tutti e due: erano nemici, perché finora i ragazzi con la divisa tedesca avevano invaso le terre di Laura e avevano ucciso la gente di quella valle, secondo un ordine dall’alto di usare le armi contro tutto e tutti, senza andare per il sottile.
Maggio era stato un mese di sangue mal versato, la ferita non si sarebbe chiusa più: i valligiani volevano solo vendicarsi e buttare fuori dalla loro terra i tedeschi e i fascisti, i nazisti capivano che la loro stella stava tramontando e si aggrappavano alla crudeltà come ultimo, inutile scudo contro la storia che li trascinava a fondo. Eppure quell’odio non sembrava essere nell’aria in quella fresca mattina d’estate, i due giovani rimanevano come paralizzati, anche se la ragazza avrebbe voluto uscire dall’acqua e mettersi qualcosa addosso. Joannes sembrò intuirlo, e con la canna del fucile le fece segno di muoversi, mentre si girava per non guardarla, mentre saliva nuda sulla riva del fiume.
D’altronde spazio e tempo per sfuggire alla canna del mitra mancavano, e Laura sapeva che in guerra il dito sul grilletto viene prima di ogni caratteristica umana. Ma si stupì, come non le capitava da prima della guerra, quando il soldato tedesco si mise a parlare in italiano. Lentamente, con qualche errore, ma impostando correttamente le frasi. Le diceva di essere di origine italiana, che i suoi antenati erano arrivati in Germania proprio partendo da quella valle Strona, dove si trovavano adesso.
“Mio nome essere Joannes Janetti – disse il giovane – come un famoso artigiano del peltro che lasciò inciso il suo nome nel 1591 a Bregenz, in Austria. Poi la mia famiglia si spostò a Netphen, in Westfalia. Veniamo da questa valle, come i Borocco e gli Zamponi, e molti altri che sono emigrati”.
“Anche io mi chiamo Janetti – gli disse con un timidissimo sorriso Laura – e anche io ho sentito spesso i racconti dei vecchi che ricordavano la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Cecoslovacchia. Laura Janetti, piacere di conoscerti. Probabilmente siamo parenti, anzi sicuramente, lontani cugini, no?”
“Non dovrei parlare con la popolazione, sai – le rispose Joannes che sembrava tornare ragazzo per la prima volta – dovrei arrestarti, o ucciderti, perché porti un’arma, anche se l’hai nascosta molto bene nel cespuglio vicino alla riva del fiume”.
“Allora mi hai spiata – disse Laura arrabbiata e lusingata allo stesso tempo – e non ti vergogni di guardare una tua parente nuda, mentre fa il bagno? Anzi, peggio, di non esserti presentato, di non avermi salutata?”
“Ma noi siamo in guerra, cara cugina, te ne sei dimenticata?”
“Non mi dimentico mai, è un’ossessione giorno e notte. Ma oggi vorrei proprio che fossi tu, bel giovinotto, a farmela dimenticare. Mettiamo giù le armi e andiamo a spasso, come se il tempo si fosse fermato qualche secolo fa. Vuoi?”
“Vorrei, eccome se vorrei, ma … “
“Ma cosa…?”
“Appunto: perché ma? Sai che ti dico? Si vive una volta
sola…anzi in guerra si vive giorno per giorno, addirittura ora per ora, e io sto qui a fare il tedesco scrupoloso?”
“Vedi? Quando vuoi le tue antiche radici italiane ti fanno diventare spiritoso, e con un bel sorriso stampato in faccia!”
“Vorresti dire che noi tedeschi siamo noiosi?”
“Non lo so – disse Laura ridiventando seria – ma il modo in cui vi abbiamo conosciuti in queste valli non ci ha dato possibilità di pensare ad altro che alla vostra durezza nell’essere violenti con la popolazione. In fondo siamo tutti europei, tutti figli di Roma. La tua Bregenz in Austria non è altro che la romana Brigantium, che diede il nome al lago di Costanza, che allora si chiamava lacus Brigantinus”.
“Ricordo solo che da bambino mi dicevano che gli emigranti italiani che venivano a vivere da noi erano molto bravi a lavorare il peltro, e il legno, e altri materiali. Da artigiani erano diventati artisti, molto ricercati per i lavori nelle chiese e nelle case aristocratiche”.
“Ma tu sei Walser?” Laura non voleva smettere di parlare perché si sentiva sempre più attratta da quel gigante tedesco della montagna, sentiva le viscere muoversi dentro, e un gran caldo e voglia di lasciarsi andare, di piacere fisico, di maschio. Neanche si ricordava più dell’ultima volta, con il marito sposato da poco e in partenza all’alba del giorno dopo per la Russia, dalla quale non era più tornato.
“Se ballo il walzer?” le rispose Joannes che era preso dallo stesso desiderio che provava la ragazza, di unirsi in quella splendida natura per darsi un piacere fisico. Tranne
una donna in un orrido bordello in Germania vicino alla caserma, con un amplesso molto rapido, non aveva mai provato a tenere davvero tra le braccia una ragazza…e anche lui ora era confuso, e parlava per nascondere la sua indecisione. O meglio, deciso a far l’amore con Laura lo era, eccome, ma non sapeva come cominciare, come aggirare l’ostacolo di essere in guerra, armati, nemici.
A Laura scappò da ridere, finalmente! Dopo tanti mesi bui qualcosa di leggero le saliva dentro. Era quella la forza che cercava, non quella del sesso che avrebbe voluto fare con quel soldato, anche subito, ma quella della risata, della lievità, dell’umorismo. “Guarda che parlavo dei Walser – spiegò la ragazza a Joannes – cioè di un popolo che si è stabilito qui da noi molto tempo fa. Insomma è stato tutto un girare, in cerca di un lavoro per non morire di fame. Ma anche perché gli esseri umani sono tutti un po’ vagabondi, e metà son tristi quando partono da emigranti, ma l’altra metà dentro son contenti di andare alla ventura”.
“Noi però non siamo né mezzi tristi né mezzi allegri – ribatté pronto il tedesco che cominciava a dimostrarsi di scarpe grosse e cervello fino – a meno che ci buttiamo su un prato a far l’amore e dimentichiamo tutto. Ma proprio tutto”. Ce l’aveva fatta, gliel’aveva detto a quella bella ragazza italiana. Quando l’aveva vista nuda nel fiume era rimasto incantato, ammaliato da quel corpo femminile.
“Allora… i Walser… nell’ottavo secolo dopo Cristo, quando Carlo Magno crea l’Europa, questi valligiani tedeschi scendono nel Vallese, uno dei 26 cantoni svizzeri, e quattro secoli dopo arrivano fino in valle Strona, qui da noi. Riconosci le loro case perché sono costruite su pali, sollevate da terra”.
“Non sono così lento – Joannes parlava mentre camminavano verso un gruppo di piante, e le aveva messo il braccio intorno alla vita – e ho capito mia bella italiana: Walser è la contrazione da Walliser, cioè abitante del Vallese, popolo germanico che si è stabilito prima in Svizzera e poi in Italia del Nord, Austria e Liechtenstein”.
“Ma tu non l’avevi mai fatto? – chiedeva Laura distesa e appagata – sei stato così violento all’inizio, quasi volessi toglierti il pensiero…”
“Una volta sola, male, e con la donna sbagliata. Tu sei la donna, non una donna qualsiasi. Non mi intendo di donne, di amore, di sesso. Non ho fatto in tempo a crescere, la guerra è una madre distratta, ti insegna solo a sopravvivere. Devi capire che non rimani su questa terra perché stai attento, ma soprattutto perché sei fortunato. E questa volta la fortuna, o meglio la sorte, il destino, chiamalo come vuoi, mi ha portato a te. Che sia mai possibile essere contenti di una guerra che ti porta di là delle montagne da una tua lontana parente?”
“Io sono giovane, troppo giovane per questa guerra: mi ha portato via un marito che non ho fatto in tempo a conoscere e ad amare. Appunto, è il destino che dà le carte…”
“Non parliamo, ho ancora voglia di te”.
Si amarono più volte, dall’alba al tramonto, e come nelle favole si sentivano felici e contenti. Due ragazzi, alla scoperta di un sentimento, con radici in comune, due patrie che sembravano fondersi per una volta senza spararsi addosso. Si alzarono stanchi, barcollando, appoggiandosi e abbracciandosi l’uno con l’altra. Ma per quanto le cercavano non trovavano le armi. Le avevano lasciate dietro un grande castagno, ben nascoste sotto un cespuglio spinoso. Ma era impossibile che fosse passato qualcuno, così vicino l’avrebbe sentito – pensò Laura che nel bosco si muoveva con abilità fin da quando era bambina e andava per funghi con la nonna – o forse era così presa dalla riscoperta del suo corpo femminile con uno maschile da essersi distratta? In realtà era sparito anche Joannes, e repentina le tornò la paura che aveva avuto all’alba nel fiume, nuda, quando si era sentita uno sguardo addosso, di maschio e di nemico allo stesso tempo.
Ora il terrore cresceva, come prima cresceva il desiderio di amore dopo tanto tempo. Anzi provava un po’ di dolore, perché lui era stato impetuoso, troppo, da subito. Poi con il passare della giornata, chiacchierando e guardando il cielo senza pensare alla guerra, l’anima e il corpo si erano rilassati, e gli amplessi con Joannes erano diventati sempre più teneri e meno violenti.
Ma il terrore sovrastava il ricordo del piacere, capiva che era in pericolo. Il tedesco le era sembrato sincero, però l’aveva lasciata così all’improvviso, era sparito senza una parola. Cominciò a muoversi, si spostava nel bosco ma sempre nascosta, quel silenzio la spaventava, non sapeva dove tornare, al comando partigiano o salire a nascondersi in quelle grotte che i nazisti e i fascisti per fortuna non riuscivano a trovare? Lei sempre così risoluta, decorata sul campo per il coraggio, era adesso così indecisa e spaventata? Troppi punti di domanda nella sua mente, erano segnali di pericolo, o della fine che arrivava all’improvviso, come era accaduto a tanti suoi compagni di guerra.
Si sentì presa da due braccia forti, mentre altri soldati in divisa le puntavano le armi addosso. In piedi stava Joannes, legato, anche lui sotto la minaccia di un mitra. Parlavano in tedesco, velocemente e duramente, e il giovane continuava a fare no con la testa. E ogni volta prendeva altri pugni, o colpi con il calcio delle pistole e dei fucili. Era ridotto male, il viso tumefatto e coperto di sangue, una specie di martire con i suoi aguzzini. A Laura, che tanto odio aveva provato per i
tedeschi nemici e assassini, venne ora invece un moto di pietà, per un giovane uomo che aveva appena amato, per una giovane vita che alla guerra era stata chiamata ma che alla guerra certo non credeva. Arrivò un calcio nella schiena anche a lei, non se l’aspettava e il dolore fu così forte da toglierle il respiro. Cadde in terra e un altro colpo la raggiunse alla testa, dalla bocca le usciva un filo di sangue. Ora Joannes urlava che non voleva ucciderla, che lei non era una spia, né una partigiana, che era solo una ragazza del posto costretta da lui, pistola alla mano, a concedersi. Ma l’ufficiale tedesco insisteva, o l’ammazzi tu – gli diceva – o la faccio violentare da tutto il plotone, e poi torturare in modo che sia una lunga dolorosa morte.
Per Joannes era troppo, in un giorno aveva cominciato con la guerra, poi era passato all’amore e ai sentimenti, poi a una serenità che non aveva mai conosciuto, infine l’incubo di essere considerato un traditore dai suoi commilitoni! Ci pensò Laura, a lei non andava di vivere ancora, tanto più se aveva perso un marito che amava e perdeva un altro uomo che le aveva portato amore. “Amore e morte” pensava, come Menandro, come Leopardi. Si slacciò il vestito e nuda si avvicinò al soldato tedesco più vicino, e cominciò a carezzarlo. Sembrava una scena teatrale, tutti erano immobili, la guardavano ammaliati, anche Joannes, che naturalmente non capiva.
Il silenzio magico della valle fu rotto da un colpo di pistola. Laura aveva sfilato dalla fondina del tenentino la rivoltella d’ordinanza, se l’era puntata addosso, al costato, e aveva tirato il grilletto. Se la morte le aveva portato via tante persone, per una volta era stata lei a dare la morte, prima che arrivasse a prenderla. Non era un suicidio – pensava con un sorriso che aveva ingannato tutti quei maschi in piedi a guardarla – era una giovinezza che doveva finire così, senza un altro dramma, se non quello, lieve, della sua morte.
– Alessandro Feroldi
Le parole giuste
Quanto può essere difficile, a volte, trovare le giuste parole per dire qualcosa. Ognuno di noi quotidianamente dice ignorante e senza rendersene conto, una sequela di cazzate impilando merda e spacciandola per buona letteratura.
Ormai l’ignoranza è diventata lo standard dell’uomo medio, le persone vivono , anzi si sollazzano, in essa senza rendersi conto del male che fanno alla società. Sempre più mi rendo conto di come non si sappia più parlare o argomentare su ciò che è davvero importate nel mondo e nella vita, le uniche cose di cui sento discutere sono insulsi argomenti basati sul nulla che portano al niente, ma ci sono paroloni in quelle frasi, citati da coloro che non sanno neanche cosa significhi la parola “parolone”. Sfruttatori del buon parlare, che immagazzinano senza pensare nozioni e lessici, credendo che basti avere certe parole in testa per poterle esibire davanti ad un pubblico. Persone incolte che non si preoccupano di domandarsi cosa una parola possa significare, che ignorano appunto il fatto che dietro una parola ci sia una storia, che non si rendono conto dei danni che provocano ogni qual volta aprano la loro cazzo di bocca. Propagatori di merda che senza accorgersene avvelenano le menti di altri ingenui ignoranti, che a loro volta sperpereranno quell’ignorante sapere ad altri e così via nelle generazioni. Una situazione così triste che però nasconde un agevolazione per noi.
Infatti penso di essere agevolato da questa fangosa situazione, poiché sarà più facile per me emergere dalla palude dell’ignoranza grazie ai miei studi. Credo che si debbano lasciare macerare gli ignoranti nel loro brodo di non basate certezze, facciamoli sentire bravi, per far sì che un giorno faranno il passo più lungo della gamba e la loro idiozia sarà a quel punto davvero pubblica. Anche stando zitti di fronte a certe conversazioni, per far sì che le nostre menti non vengano sporcate da quel vano blaterare. Tacere per limitare i danni, non parlare per evitare di far conoscere a “tutti quelli” altre parole o concetti che andrebbero poi a sperperare ancora senza pensarci.
Bevo uno spritz in un bar e nel mentre mi rendo conto che al giorno d’oggi è così difficile affrontare una sana conversazione di discussione. Sono così poche le persone che mi circondano con le quali ha ancora senso mettersi a tavolino e urlarsi addosso. Il mondo rovina verso l’ignoranza cosmica, dovuta alla troppa televisione, ai mass-media che ormai non sono altro che trampolini di lancio dedicati ai cerebrolesi (almeno nella maggior parte dei casi), ai professori che si fanno mettere i piedi in testa da montati e viziati ragazzini idioti, a genitori che non sono in grado di insegnare certi valori necessari al funzionamento di una buona società, persone che per fare stare zitti i figli entrano in Apple Store, anziché nella lavanderia di casa per impugnare un battipanni e tatuarlo sulla schiena di una prole impertinente. Il mondo, senza rendersene conto sta morendo, e tutti facciamo caso solo all’inquinamento atmosferico ma nessuno percepisce l’inquinamento sociale e linguistico che il nostro paese non è in grado di contrastare. È un mondo pericoloso un mondo abitato da ignoranti, una società costruita ed edificata con l’unico scopo di farci essere ignoranti, così un giorno sarà ancora più facile manipolarci.
Allora io chiamo alle armi tutti coloro che come me vogliono contrastare questa manipolazione, persone che amano la cultura del buono e del colto. Richiamo tutti quelli che, come me, si interessano alla propagazione del ben parlare, della buona educazione e dei bei modi e dico: cacciamo l’ignoranza, facciamo leva su tutti coloro che sono in un modo o in un altro persecutori dell’educazione. Affoghiamoli nel loro brodo infondato ed emergiamo per portare un respiro di sollievo nella speranza di sollevare ancora l’orgoglio di una lingua che ha dettato le leggi del mondo.
Non so se le mie parole sono state apprezzate ma, no, neanche queste sono state facili da scegliere. So che ci ho messo il rispetto per la mia lingua e la passione per la scrittura, due pregi che mi accompagnano e accompagnano sempre le mie parole. Con amore verso i non ignoranti, un poeta inesperto.
– Federico Dugini
– Non dovresti essere lì –
Quest’anno, l’anno scorso, l’anno prima e l’anno ancora prima, ho rinunciato a tante ore di sonno. Ogni giorno la sveglia è programmata alle sei e quarantacinque. Ma la sveglia non è mai suonata. Non so manco che musica abbia. Se gracchi un bip bip bip o si cimenti nella nona sinfonia di Beethoven. Mi alzo alle sei, quando albeggia. A volte alle cinque e trenta le mie mani agitano già le lenzuola. E, bada bene, potrei dormire fino alle sette passate: lascio l’appartamento un po’ dopo le otto, c’è abbondanza di tempo. E bada bene, non è come dire Longtemps, je me suis couché de bonne heure, perché io a differenza di Marcel posso andare a letto molto tardi.
Sono paranoica. Ho la percezione che il tempo si contragga, scivoli via, e per questo voglio essere in anticipo sul tempo. E per questo ogni mattina corro, corro per otto chilometri nel quartiere, corro dietro al tempo, lo supero, lo respiro, lo inseguo e lo perdo. Ogni mia giornata incomincia così, e anche se certe giornate sono amare e mi schiacciano e mi sfibrano, io, grazie alla corsa quotidiana, mi sento padrona.
A volte porto l’i-pod, a volte mangio una banana prima di uscire, indosso calzoncini corti aderenti oppure lunghi e larghi, a seconda dell’umore e della condizione psicofisica. A ogni modo, percorro sempre lo stesso giro. D’altra parte, una persona abitudinaria come me, che mai una volta rinuncia agli otto chilometri, non può che costringersi e adagiarsi sul medesimo e unico percorso.
Chiuso il portone alle spalle, prendo la destra, in Via Dei Piani, per dirigermi ad est, nella parte che si accenderà per prima, perché, potete immaginarlo, a dicembre c’è ancora troppo buio. Un buio disarmante. Devo aspettare maggio per divincolarmi tra sprazzi di luce, e il primo lunedì di quel mese mi accorgo che nella stradina stretta di sanpietrini, con le finestre fatiscenti e le porte così prominenti che sembrano proiettarti addosso l’intimità familiare, di fronte a me c’è un uomo affacciato alla finestra di un corridoio elevato che mi fissa tutto il tempo che ci metto a passare davanti a lui e a superarlo per sparire finalmente dalla sua vista.
Il giorno dopo come mi infilo nella stradina, l’uomo si delinea pian piano alla finestra come una livida apparizione. La mattina dopo ancora lui è sempre lì. Anche la settimana dopo. Persino le domeniche. Soltanto un venerdì mattina non l’ho visto e ho pensato che gli fosse successo qualcosa.
Lui è sempre statico, fisso alla finestra. Io sempre in movimento, di passaggio. La verità è che io sono sempre uguale a me stessa, con il volto settato su quel tragitto e basta. Lui invece cambia. È sempre diverso: una mattina fuma una sigaretta, un’altra beve una tazza di caffè. Un’altra ancora fissa lo schermo del cellulare oppure tiene semplicemente le mani intrecciate appoggiate al davanzale. Una volta aveva la testa girata verso l’interno della stanza e intuivo le vene gonfie del collo. Mi sono immaginata che rimproverasse la moglie.
Ogni volta, anche per pochissimo, mi guarda mentre passo. Sempre con un’espressione diversa. Uno sguardo lascivo, un’aria stanca e assente, poi da delinquente, oppure che dice che brava che sei, che costanza! oppure ancora che noia mortifera tu e la tua corsa dell’accidenti! Poi di nuovo la sigaretta, persino un sigaro. Una mattina l’ho sentito ruttare. Una volta temevo che mi sputasse addosso mentre passavo. Eccolo che carica un orologio, con la Gazzetta dello Sport e poi…cos’è quello…un..una…pistola…U-n-a p-i-s-t-o-l-a…bang bang!…dring dring!…oddio, la mia sveglia!
– Annamaria Pezzotti